Agricoltura nella provincia di Livorno vuol dire eccellenza: olio, vino, melone, carciofo, dal vitivinicolo all’ortofrutta sono tanti i prodotti riconosciuti a livello mondiale. Ma, in questi anni di forte crisi economica, si stanno riscontrando sempre più fenomeni di sfruttamento della manodopera irregolare e non, extracomunitaria ma anche italiana. A dirlo è Nicolò Cortorillo, funzionario della Flai-Cgil di Livorno, sindacato che tutela i lavoratori dell’agroalimentare, sempre più impegnato nella denuncia di chi non rispetta le regole. «Soprattutto nel settore ortofrutticolo – spiega –, sempre più spesso ci sono condizioni di lavoro deprecabili, come sotto salario, orari di lavoro lunghissimi, diritti e tutele inesistenti, che o si accettano o non si lavora. Poi ci sono appalti ad aziende senza terra solo per ridurre il costo del lavoro e, storia più recente, il subappalto a cooperative». Per meglio inquadrare il problema, su tipo 100 aziende, 70 sono sane e 30 si comportano male. «E questo deve far riflettere – aggiunge – su come nel nostro territorio possano coesistere eccellenze mondiali e casi di sfruttamento. Certamente non si può parlare di “caporalato”, non siamo nelle condizioni di altre parti d’Italia, e non solo Sud, ma abbiamo dei campanelli d’allarme. E oltre a denunciare pubblicamente è necessario portare avanti una campagna di sensibilizzazione su questi temi, e fare concretamente qualcosa anche una volta spenti i riflettori su casi “eclatanti” come le recenti morti nei campi».
In questo senso è nata, già da tempo, l’idea di creare un protocollo d’intesa per la legalità, in seguito anche all’iniziativa pubblica “Legalità e caporalato” tenutasi a Castagneto Carducci quasi un anno fa, alla presenza del segretario generale della Cgil Susanna Camusso e proprio questa mattina presentato in Regione. «Lì abbiamo cominciato a denunciare questa situazione – sottolinea Cortorillo –. Abbiamo pensato a un protocollo tra istituzioni, aziende, organizzazioni sindacali e datoriali, che valorizzi tutte le aziende virtuose a dispetto di quelle che non rispettano i contratti collettivi nazionali e i diritti dell’essere umano. In accordo anche con la grande distribuzione locale, che fino ad oggi ha fatto il prezzo del prodotto favorendo in alcuni casi la concorrenza sleale tra aziende, vogliamo creare un “marchio etico”, che garantisca i diritti dei lavoratori ma anche la qualità del prodotto finale per i consumatori. Quindi una certificazione di un prodotto sano fatto da lavoratori protetti in quelle aziende che garantiscono tutele e diritti, che fanno della sicurezza sul lavoro e della legalità il loro marchio di fabbrica, e che devono essere tutelate attraverso incentivi e sviluppo dell’immagine o del marchio rispetto a quelle che non aderiranno al protocollo». «Da lì partiamo per portare avanti il lavoro su tutto il territorio – afferma Cortorillo -. Il lavoratore deve essere visto non solo come un costo, ma come una risorsa, un valore aggiunto di professionalità ed esperienza in grado di creare prodotti di altissima qualità. E in una provincia virtuosa come la nostra, con l’aiuto di tutti credo non sia difficile iniziare a emarginare l’illegalità che sta nascendo».
Lavoro Grigio: solo uno su dieci denuncia: «Non c’è caporalato ma sfruttamento – ribadisce Cortorillo, ex operaio agricolo -, non siamo ai 2 euro all’ora, come ci raccontano le cronache delle recenti morti nei campi, ma intorno ai 5,50 euro. Non c’è più lavoro nero, ma lavoro grigio, cioè si fa firmare al lavoratore un contratto che poi non viene rispettato. Ad esempio, se lavora 8 ore gliene segnano una, se lavora 30 giorni magari ne compaiono 5. Con un danno non solo al lavoratore, che quindi non accede a sussidi, a disoccupazione, a malattia o altro, ma anche a tutto il sistema contributivo, oltre che l’elusione fiscale». Ci sono squadre formate da sindacati, enti e istituzioni che lavorano per l’emersione del lavoro sommerso, che però hanno in molti casi le mani legate: è solo attraverso la denuncia diretta del lavoratore che si riesce a intervenire e a fare qualcosa. «Anche dal punto di vista ispettivo è difficile – spiega Cortorillo -. Se facciamo una segnalazione di situazioni del genere all’ispettorato del lavoro, non è facile individuare dove sono questi lavoratori. Un’azienda può avere ettari di terreno che si estendono in più paesi, quindi non si sa con certezza dove un lavoratore è quel giorno dell’ispezione, a meno che non dice “eccomi, sono qui”. Ma quanti sono i lavoratori che denunciano le proprie condizioni? «Uno solo su dieci – afferma il sindacalista – trova il coraggio di farlo».
Le storie: Con la sua attività di denuncia, la Flai-Cgil di Livorno ha voluto dar voce a tutti quei lavoratori agricoli, e non solo, che hanno chiesto aiuto, affinché le loro storie di sfruttamento e sofferenza contribuiscano a sensibilizzare l’opinione pubblica. Sono storie della Val di Cornia, di ragazzi, uomini e donne, italiani e stranieri, testimonianze (con nomi fittizi) che fanno parte della campagna per la legalità portata avanti dal sindacato.
Matteo ha 21 anni ed è operaio presso un caseificio. A causa della crisi economica, ha dovuto lasciare gli studi per andare a lavorare e aiutare la sua famiglia. «Lavoro 11- 12 ore al giorno per 6 giorni, spesso non riesco a fare festa neanche la domenica, per guadagnare solo 900 euro al mese. Sono costretto ad accettare queste condizioni indegne ma purtroppo non riesco a trovare nessun impiego migliore». Poi c’è Raffaella, operaia agricola. Fino al 2012 dipendente presso un’azienda, è poi passata a una cooperativa senza terra, lavorando sempre per la stessa azienda. «Dopo due mesi non sopportavo più quelle condizioni disagiate, lo stipendio troppo basso per le ore che lavoravo, e sono stata costretta a licenziarmi. Oggi all’età di 55 anni mi sono reinventata lavapiatti per aspettare la pensione e sopravvivere». Serigne è un ventunenne senegalese, arrivato in Italia a 13 con un permesso per ricongiungimento familiare. Ha studiato a Porto Recanati, a 16 anni ha cominciato a lavorare come venditore ambulante sulle spiagge, e a 17 è diventato operaio agricolo con la raccolta di pomodori in Val di Cornia. Con la maggiore età poi, sempre per la stessa azienda, ha iniziato con la raccolta di spinaci e cavoli nel periodo invernale. «Qui sono iniziati i primi problemi. Lavoravo 10-11 ore al giorno per 28 giornate consecutive con condizioni meteo difficili per soli 5,50 euro all’ora. La mia giornata iniziava alle 7 del mattino fino alle 18 o finché vi era luce per lavorare, e ci era concessa una pausa per mangiare solo se avevamo finito il campo. Neanche per rifornirci d’acqua potevamo fermarci. Quando io o alcuni dei miei compagni provavamo a ribellarci ci veniva intimato il licenziamento e il mancato pagamento dell’effettivo lavoro, che non corrispondeva mai a quello riportato in busta paga». Ora, grazie all’aiuto della Flai-Cgil è stato assunto e pagato regolarmente in un’azienda di floricoltura. Insieme a Seringe lavorava Modou, senegalese di 43 anni. «Una mattina il nostro datore di lavoro ci ha intimato il licenziamento perché non producevamo il quantitativo che lui desiderava, ben 13 cassette di spinaci all’ora, dicendo a tutti che l’indomani si sarebbero dovuti presentare a lavoro solo coloro che avevano il permesso di soggiorno, con questo sistema gli altri non avrebbero riscosso il mese». Adesso, aiutato dal sindacato, ha un contratto regolare in un’azienda vitivinicola di Massa Marittima. Infine, un esempio di sfruttamento opposto, di prestazione concordata dal lavoratore con l’azienda. Elda, 58 anni, d’accordo col datore di lavoro si fa segnare il numero minimo di giornate per percepire la disoccupazione, e il restante compenso le viene pagato a nero per 6 euro all’ora. «Sono fortunata perché ai neri danno 5,50 euro». Così riesce ad avere un reddito minimo e a usufruire di agevolazioni comunali e regionali, compresa l’esenzione dalle tasse universitarie per la figlia. Un sistema questo che crea danni ai Comuni, ai contribuenti e alle casse di Inps e Inail.