In Italia ci sono oltre 3 milioni di persone che lavorano in nero e 3,5 milioni tra disoccupati certificati e scoraggiati, che arrivano a 4,5 milioni se si aggiungono i precari. Al conto vanno poi aggiunti 500 mila individui che da oltre tre anni sono stabilmente in cassa integrazione. I numeri, “allarmanti”, sono della Cgil, che in occasione dell’assemblea nazionale delle delegate e dei delegati in programma per il 3 dicembre propone una ricetta in nove punti “per segnare un cambio di rotta”. I nove temi sui quali il sindacato propone di intervenire sono i seguenti: una nuova e strategica politica industriale contro la crisi riaffermando la centralità manifatturiera del sistema italiano; ridurre drasticamente le 46 diverse forme contrattuali esistenti a poche unità “senza pensare ad improbabili ulteriori riforme”; riformare gli ammortizzatori sociali per garantire a tutti, specie ai giovani precari, tutele dignitose; attuare nella Pubblica amministrazione politiche del lavoro che non penalizzino le nuove generazioni e favoriscano la qualità e l’universalità dei servizi; giovani non più precari, le nuove generazioni non devono essere ricattate, servono contratti veri, con pieni diritti e tutele; più donne al lavoro attraverso un piano straordinario per l’occupazione femminile e con la reintroduzione della legge contro le dimissioni in bianco; combattere e reprimere il lavoro nero recuperando le ingenti risorse economiche per estendere legalità e diritti; mettere al centro il Mezzogiorno attraverso piani strategici di sviluppo e occupazione; lotta senza quartiere all’economica mafiosa che sottrae ogni anno 330 miliardi di euro al Paese.1. Politiche industriali contro la crisi – Circa 3,3 miliardi di ore di cassa integrazione da quando è esplosa la crisi nell’autunno del 2008. Oltre 50 mila aziende coinvolte, 3,5 milioni toccati dalla cassa e 500 mila stabilmente in cig. Quasi 200 tavoli di crisi aperti su vertenze che investono oltre 220 mila lavoratori. Sono i numeri della crisi produttiva tamponata dal massiccio ricorso alla cassa in questi tre anni e che il precedente governo ha aggravato senza intervenire sui fattori di crisi strutturale e senza dare indicazioni di sviluppo. Mentre ha ridotto, quando non tagliato completamente, investimenti strategici sulla ricerca, sulle infrastrutture, sulle energie rinnovabili. Il settore delle energie rinnovabili è stato l’unico settore a crescere con oltre 120 mila occupati, nonostante la mancata attuazione del piano energetico nazionale. E’ decisivo cambiare strada per riaffermare la forza nella specificità manifatturiera del nostro sistema economico, affrontare le debolezze strutturali e fattoriali, partire dall’istituzione di un fondo per la crescita e l’innovazione che possa favorire innanzitutto un Piano energetico nazionale e politiche di green economy. Servono infine politiche di innovazione e sviluppo locale, aumentare la spesa in ricerca e sviluppo, favorire politiche industriali per il Mezzogiorno.
2. Ridurre le tipologie contrattuali – La crisi sta peggiorando la qualità dei nuovi posti di lavoro. Circa 8 assunzioni su 10 sono precarie pescando tra le 46 diverse forme contrattuali esistenti. Una situazione insostenibile che moltiplica una precarietà devastante per la vita delle persone, scaricando i costi sociali sulla collettività e sull’intero paese, e che il passato governo ha perseguito a partire dal collegato lavoro per arrivare all’articolo 8 della manovra di ferragosto. Non serve quini pensare ad improbabili ulteriori riforme, magari aggiungendo nuove tipologie di lavoro. Serve ridurre significativamente le forme di impiego e restituire una gerarchia tra le forme di lavoro. La CGIL rilancia la centralità del lavoro stabile, tutelato e formato come leva per il progresso e la coesione sociale, proponendo: che il lavoro a tempo indeterminato torni ad essere il “normale” rapporto di lavoro; che sia incentivato fiscalmente e contributivamente; che ogni rapporto non a tempo indeterminato costi quindi di più di quello normale e sia giustificato per via legislativa e/o contrattuale; che si incentivino le trasformazioni da lavoro precario a lavoro stabile che si cancellino le tante forme di lavoro oggi esistenti riconducendole a poche unità; che l’apprendistato sia la via d’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, con formazione vera e certificata, pienezza di tutele e retribuzione progressivamente crescente.
3. Riformare gli ammortizzatori sociali – In Italia oltre 1,6 milioni di persone non sono tutelate da ammortizzatori sociali: soprattutto giovani precari ma anche lavoratori senza i requisiti per l’indennità di disoccupazione o che hanno terminato il periodo di tutela. Ora, dopo oltre tre anni di crisi, per molti lavoratori in cig si stanno esaurendo gli strumenti di sostegno. Serve una riforma organica degli ammortizzatori sociali che garantisca a tutti due forme di tutela: la cig in caso di difficoltà temporanea dell’impresa, con garanzia di rientro in azienda e ricorso a formazione mirata durante i periodi di non lavoro; l’indennità di disoccupazione in caso di perdita di lavoro. Una riforma per assicurare a tutti una copertura reale pari all’80% del salario, fino ad un tetto massimale realistico di 1.800 euro, e copertura figurativa per tutto il periodo. La durata dei benefici sarà modulata garantendo però a tutti, in modo eguale, tre anni di ricorso massimo alla cig ed almeno 24 mesi di tutela dopo il licenziamento, e abbattendo le barriere che oggi impediscono ai precari di accedervi. Va inoltre previsto anche un “reddito di ultima istanza”, che protegga le persone quando gli ammortizzatori finiscono, che sia finanziato non dalla contribuzione ma dalla fiscalità generale, ed abbia come fine il reinserimento nel mondo del lavoro.
4. Qualità e diritti nella Pubblica amministrazione – Politiche del lavoro che non penalizzino le nuove generazioni e favoriscano la qualità e l’universalità dei servizi servono anche nella Pubblica amministrazione. Le politiche del centro destra nei diversi settori della Pa e della conoscenza hanno determinato un’emergenza lavoro creando una impressionante sacca di precariato. I numeri sono eloquenti: a fronte di circa 61 mila lavoratori precari che hanno fruito delle leggi che ne permettevano la stabilizzazione, continuano ad esservi 122 mila persone con contratto non a tempo indeterminato e circa 117 mila contratti di collaborazione e/o consulenza. A questi numeri si aggiungono quelli dei rapporti a tempo determinato nei settori della conoscenza: circa 200 mila lavoratori precari mentre non meno di 70 mila persone vincitrici di concorso non hanno ancor accesso nella Pa. Dal 2011 il taglio del 50% della spesa per lavoro precario sta determinando interruzioni anticipate o mancati rinnovi con le conseguenti ripercussioni sui lavoratori e sulla continuità dei servizi pubblici. Un quadro drammatico che va superato nel segno dei diritti e delle regole: anche nell’emergenza finanziaria occorre riprendere ad investire in servizi qualificati alla persone e in innovazione di processo e di prodotto tornando ad allargare i confini dell’intervento pubblico.
5. Giovani non più precari – Il concetto è molto semplice: la precarietà non paga. La presenza di alcuni milioni di precari e 2 milioni di giovani che non trovano lavoro costituisce una vera e propria emergenza sociale che la crisi economica ha ulteriormente aggravato. Innanzitutto occorre liberare le nuove generazioni dal ricatto di chi le costringe ad essere disposte a tutto pur di lavorare, anche a condizioni indecenti: ciò significa contrastare la disoccupazione giovanile e il lavoro sommerso creando un sistema di tutele e servizi per i giovani in cerca di prima occupazione. Non servono anni di schiavitù per conquistare un posto di lavoro: ai giovani che accedono al primo impiego serve un contratto vero, con pieni diritti e tutele. Se questo ha una finalità formativa deve avere una durata prestabilita di massimo 3 anni e tempi certi di stabilizzazione. Bisogna mettere fine alla giungla di contratti truffa: ad un lavoro stabile deve corrispondere un contratto stabile. Infine a parità di lavoro devono corrispondere pari condizioni: i diritti fondamentali devono essere estesi a tutti e difesi dagli effetti dell’articolo 8 dell’ultima manovra economica che invece consente deroghe a seconda del posto di lavoro e della condizione in cui ci si trova.
6. Donne al lavoro – La finestra dell’Italia femminile che lavora è desolante. Se confrontati al resto dei Paesi europei i dati sulla partecipazione delle donne al mondo del lavoro in Italia sono allarmanti: nel 2010 il tasso di occupazione al femminile si è arrestato al 46,1%, pari al 12% in meno rispetto alla media europea. Sono 800 mila le donne licenziate, o costrette a lasciare il lavoro, a causa della maternità, ovvero l’8,7% delle donne lavoratrici con almeno un figlio. Il divario con gli stipendi maschili poi è ancora notevole. La retribuzione netta mensile delle lavoratrici dipendenti è di 1.077 euro contro i 1.377 degli uomini, circa il 18% in meno. Quasi una donna su due in Italia non è occupata né disoccupata, ovvero non lavora, ma non è neanche in cerca di un posto :il tasso di inattività femminile è pari al 48,9%, mentre quello maschile si attesta a 26,9%. Emerge con chiarezza quindi che le donne stanno pagando la crisi più e peggio degli uomini. Serve lavoro, che sia buono e che superi discriminazioni, differenziali, segregazioni e separazioni, a partire da un piano straordinario per l’occupazione femminile, con una particolare attenzione nei confronti delle giovani donne; dal ripristino della legge sulle dimissioni in bianco; da investimenti seri sui servizi sociali.
7. Battere il lavoro nero – In Italia il 17% della ricchezza prodotta evade il fisco. Si tratta di centinaia di miliardi l’anno e di più di 3 milioni di lavoratori costretti ad avere salari spesso da fame e condizioni di lavoro terribili. Il problema non va sottovalutato e di certo l’ampiezza del sommerso non va intesa come semplice ricchezza non dichiarata, magari fisiologica o addirittura come ammortizzatore sociale. Occorre rovesciare l’impostazione fin qui seguita: potenziare i controlli e la sicurezza progressivamente ridotti. Così come va sancita l’obbligatorietà della regola e della coesione sociale. Una mobilitazione contro il lavoro sommerso deve muoversi dunque secondo direttrici precise che si possono sintetizzare in tre grandi filoni. Serve reprimere in maniera mirata. E’ necessario fare della Pubblica amministrazione un garante di legalità. Infine c’è bisogno di dare sostegno alle regolarizzazioni: reprimere è decisivo ma non basta, serve anche una prospettiva di emersione attraverso piani territoriali che sostengano le imprese che volessero rientrare nella legalità. Il tutto nella consapevolezza che il lavoro nero, grigio e sommerso, si può combattere e battere. C’è bisogno di una vera volontà politica per riaffermare la legalità, recuperare risorse ed estendere i diritti.
8. Il lavoro è il Sud – Il Mezzogiorno paga un prezzo altissimo nella crisi. Le passate manovre economiche hanno peggiorato progressivamente una situazione già grave. Ogni manovra ha fatto pagare al Mezzogiorno un pesante prezzo perché si è fatto cassa con le risorse previste per i Fondi per le aree sottoutilizzate dirottandole per altre voci o piegandole ad esigenze di clientele elettorali (vedi fondi per l’emergenza rifiuti a Catania) così da mettere in forse – per i meccanismi di spesa europei – anche le risorse che le Regioni sarebbero state chiamate ad erogare. La stessa minestra, chiamata ‘Piano per il Sud’ o ‘Piano Eurosud’, è stata scaldata più volte e le cifre in esso previste si sono rivelate giochi di prestigio. Per questo il lavoro è il perno di ogni scelta per il riscatto del Mezzogiorno e la rinascita del Paese. L’Italia non uscirà dalla crisi più grave del dopoguerra se non rimette il Mezzogiorno al centro di un progetto di sviluppo sostenibile che modifichi in profondità il mix produttivo e la struttura dei consumi e offra alle nuove generazioni una prospettiva di lavoro stabile, qualificato, non povero e precarizzato. Quindi: utilizzare rapidamente e con efficacia le risorse disponibili per lo sviluppo del Sud; riattivare gli investimenti In materia di sviluppo promuovendo una politica industriale innovativa centrata sulla green economy.
9. Mafie Spa: quanto ci costa l’economia criminale – La Corte dei conti ha comunicato che il costo della corruzione in Italia è stimabile in 60 miliardi di euro e che nel 2010 il fenomeno è aumentato del 30% rispetto al 2009. Non solo: secondo la Commissione parlamentare antimafia il fatturato delle Mafie italiane è stimabile in 150 miliardi di euro con 70 miliardi di utili al netto degli investimenti. Circa 180 mila posti di lavoro all’anno persi nel Mezzogiorno d’Italia a causa di questa attività criminale mentre 500mila commercianti sono oggetto della malavita organizzata, per un giro di affari criminale stimato in 98 miliardi di euro, di cui 37 per mano mafiosa. La Guardia di finanza afferma che nel nostro paese i redditi evasi ammontano a 270 miliardi di euro e che il mancato gettito sia di 120 miliardi di euro, di cui 60 miliardi di Iva evasa. Sommati questi dati emerge che ogni anno l’illegalità (mafie, corruzione, evasione fiscale, economia sommersa) sottrae agli italiani e alle imprese oneste 330 miliardi di euro. Numeri eloquenti: siamo di fronte a nodi strutturali che non sono più rinviabili. Il problema non è solo affrontare il contingente e far tornare rapidamente i conti. La vera questione è che quei nodi rappresentano un intralcio, un vero e proprio cappio al collo e che la legalità è una risorsa culturale ed economica per lo sviluppo del Paese.